La Rappresentante di Lista sono i Music Director di Giugno
Abbiamo intervistato La Rappresentate Di Lista in occasione del loro tour estivo italiano che arriva a seguito di un tour primaverile nei club delle principali città Europee. Tra i racconti dietro il loro album Giorni Felici e riflessioni sulla delicatezza e la brutalità del mondo, LRDL sono i Music Director di Giugno e hanno curato una playlist in esclusiva per i lettori di Harper’s Bazaar.
L’idea di raccontare la vita attraverso il disincanto, ma senza perdere lo scintillio della speranza. La Rappresentante Di Lista delinea così il perimetro attorno all’ultimo album Giorni Felici e il lungo tour che li vede coinvolti sui plachi europei e italiani. Un mix tra ironia, consapevolezza, sogno e cinismo attraverso cui corrono le note e le parole di un gruppo ormai icona della rappresentazione della realtà.
Nel vostro progetto fin dall’inizio c’è tanta contaminazione e collaborazione. Viviamo in un’era individuale, ma credo che oggi più che mai siamo più forti insieme, mischiandoci e ascoltandoci, senza schiacciarci nella corsa all’arrivismo, da soli. Mi sembra che nella vostra storia fin qui la collaborazione e la contaminazione di input, sia un qualcosa di naturale, penso sia un attitudine infondo. Come si fa a non affogare in questo mare infinito di stimoli?
Dario: Ultimamente abbiamo chiuso i concerti con questa canzone del nostro secondo album intitolata “Un’isola”. L’ultimo ritornello dice “noi siamo un’isola, un’isola, un’isola, un’isola” e le prime volte che la suonavamo dal vivo, ero un po’ contrariato dal fatto che essendo nato e vivendo in un’isola, ne ho sempre visti i limiti. Un’isola è un qualcosa di isolato e, mentre Veronica cantava quelle parole, mi sono sempre chiesto se fosse giusto dire che siamo un’isola. In realtà in questa dimensione di tour europeo, sentendoci quindi già un’isola all’interno di un contesto di viaggio, di passaggi diversi, di confini, facce nuove e in questo momento storico in cui il tipo di isola che sentiamo è in realtà un barricarsi dentro le proprie identità nazionali, dentro le proprie isole commerciali, quest’isola che cantiamo mi è sembrata quasi un rifugio. Un punto zero da cui ripartire per ragionare su nuove regole di comunità, di libertà, ma anche di individualità e isolamento, senza dover pensare necessariamente a dover controllare la vastità del mondo, ma pensando a delle comunità più piccole, per ritrovare l’umanità di questa dimensione.
Veronica: Io e Dario arriviamo dalla stessa isola, ma poi esiste anche il coltivare la propria identità e la propria personalità singola che entra poi in contatto con altre personalità, indubbiamente affini. Sono d’accordissimo che queste isole sono piccole. Più passa il tempo e più mi rendo conto che sono comunità fatte di poche persone. Bisogna procedere per gradi anche nell’inglobare le persone all’interno delle proprie comunità, perché poi si perdono di vista le cose; in più, mi rendo conto che grandi masse come quelle che si sviluppano sui social, rischiano anche di farti perdere quello che poi è un percorso che parte individuale, anche su se stessi. Spesso gli stimoli che provengono da fuori, soprattutto quelli indotti sulla felicità a tutti i costi, disperdono molta della tua energia che, se canalizzata nel modo giusto, ti fa trovare il senso sano di fare le cose, la gioia pura, la necessità di dire alcune cose, di alzare la voce.
Nell’album “Giorni Felici” c’è un’atmosfera a tratti inquietante, crudamente reale, ma al tempo stesso dolcissima. A tratti anche psichedelica e romanticamente cruda. Diverse tracce tra cui “Paradiso”, hanno una spensieratezza ribelle e sofferta. Quando dite che La vita è una giostra incantevole, ho pensato all’illusione dello scintillio che non si ferma mai. Il paradiso di cui parlate in che percentuale è illusorio e in quanto reale?
Veronica: Sicuramente credo che siamo arrivati a un momento della nostra vita dove ti rendi conto che gli autori creano delle grandissime illusioni e quello che più fanno è darti speranza, anche quando non c’è. Quella tenerezza maledetta che ti ci fa credere fino in fondo, ti frega rispetto a come vanno le cose. Altre volte, invece, ci si sente impossessati dalla disillusione e dall’inferno più nero. È come un’altalena, una giostra incantevole, dove l’adrenalina alle volte fa tornare tutto meraviglioso. Spesso in questo disco succede così. La musica stessa è quella che ti ricarica di un’energia quasi rinnovata, poi delle dinamiche tornano a ricordarti che purtroppo dietro l’angolo ci sono quelli che sono i tuoi fantasmi, quello che è un mondo che non va come speravi e tutto quello che hai raccontato si sgretola, tu lo rincolli e si sgretola di nuovo.
Dario: Come la tela di Penelope! Sarà una questione anche generazionale, legata a quante volte abbiamo cucito e scucito questa tela. Siamo passati sia come persone, che come band, che come collettivo attraverso un ciclo che andava e tornava. Questo è anche il motivo per cui questo disco ha questo tipo di disillusione. Nonostante questo però, c’è questa specie di automatismo dove la musica, anche nei suoi accordi più neri e minori, è vita.
Veronica: La musica è la prima cura, perché ti salva, ti senti di averci buttato dentro tutto, ma poi è una canzone. Per quanto possa fare tantissimo, non potrà mai abbattere quello che ha davanti di tremendo nel mondo e quindi arriva anche un’ondata di impotenza.
Dario: Quando sei su un palco e canti una canzone che hai scritto che dice delle cose, senti una potenza che è direttamente proporzionale alla disillusione che provi quando quella canzone finisce. Con gli anni mi sono reso conto che c’è poco scampo a questa cosa.
Veronica: Sì è così, poi è anche vero che la canzone è stato un po’ il tuo modo per raccontare qualcosa che è successo, ma è anche una cosa che sana molto te. La stai restituendo, non ha sanato completamente te, non sai se sanerà completamente gli altri, perché in fin dei conti è anche molto personale, per cui è quella gioia che definirei una quasi gioia.
In “Ne Je ne T’aime Pas Toujours” penso ci sia un bellissimo riassunto comunemente condivisibile: “l’amore mi fa male e non so perché”. L’amore oggi è complesso, ma penso che proprio per questo accetti la possibilità di forme nuove nella sua lotta contro gli schemi pre impostati, nonostante il mondo attorno dica altro. Il non sapere il perché di un male, da cosa deriva secondo voi?
Veronica: non lo sai alle volte perché non ti togli la mano davanti agli occhi. L’amore non lo capisci più perché ha preso delle strade diverse. L’amore come ce lo raccontavano i nostri genitori non è più quella cosa lì: l’amore sociale, le coppie, il chiudersi all’interno di questo piccolo segmento e non rimanere più uno e uno, ma diventare una cosa sola è una modalità antica. L’amore ha espanso i suoi confini, perdendosi alle volte anche negli stimoli esterni. Serve uno sforzo incredibile anche a pensare all’amore oltre alla coppia, oltre ai confini dove ci hanno guidati ad andare, c’è un amore ricchissimo di sfumature.
Dario: Mi viene voglia di fare una citazione pop di una puntata che ho visto ieri di “The Last Of Us” a proposito di come cambia la narrazione anche degli eroi, dei maschi intendo. C’è uno dei protagonisti Joel, che va dalla psicologa, una cosa assolutamente contemporanea dove tutti siamo in terapia per cercare di risolvere almeno nel personale, quello che come società non riusciamo a risolvere nel collettivo.
Veronica: nell’epica, gli eroi andavano dagli oracoli.
Dario: Potremmo dire quindi che oggi l’oracolo è diventato uno psicologo, non è male. Questa psicologa nella puntata dice “riesce a dire ad alta voce qualcosa di cui hai paura?” Mi ha fatto pensare che le canzoni sono questo. Dire l’amore mi fa male è un modo per ammettere qualcosa. A volte cantarlo significa un po’ edulcorarlo, ammettere una difficoltà, la necessità di una presa di coscienza. A volte bisogna essere protagonisti, altre volte mettersi in quinta, anche semplicemente per riprendere energia.
“Ho smesso di uscire” mi ha fatto pensare al Taboo dell’analisi con cui siamo cresciuti un po’ tutti. Quando si diceva che dallo psicologo ci andavano i matti e non c’era una cultura nei confronti della salute mentale. Il bisogno urgente di cui parlate nel finale per me è un tenero grido sussurrato. Qual è il vostro bisogno urgente?
Veronica: Quella che si cita nel brano è una vendetta, una rabbia e ho fortunatamente capito che sono dei bellissimi motori, ma è buono che non sfocino in “violenze”, ma è interessante comunque che abbiano la loro evoluzione. Quello che ad oggi viene fuori è un bel bisogno di essere, la definirei banalmente libertà. Sento che è il bisogno di non avere un controllo, che è poi quello che ti permette di andare al mare, come diciamo nell’ultima parte della canzone. La mia rabbia perde completamente la sua presa, quando mi rendo conto che decido, scelgo, costruisco con i miei tempi, mi ascolto e non sono sotto controllo. È una dimensione che è stata per me una costante della mia vita, per controllo intendo anche controllo di me stessa che sono il più grande giudice inquisitore del mio palazzo. Sono stata una grandissima controllatrice e alle volte non mi sono lasciata delle possibilità, cosa che invece mi sto permettendo di fare oggi.
La vostra storia e la vostra musica è fatta di provocazioni, immagino che sia sempre più difficile inseguire questa attitude quando si raggiunge la fama, ma al tempo stesso la fama è una cassa di risonanza più ampia. Come convivete con questa dualità nel POP, inteso come essere popolari?
Dario: Secondo me in qualche modo non abbiamo mai tradito questa modalità. Abbiamo passato ovviamente tante fasi diverse. Per fortuna c’è una dimensione di dialogo incrociato tra me e Veronica, per cui abbiamo sempre avuto la possibilità di insinuare il dubbio in quello che stavamo facendo. Il successo arriva anche come una violenza, come qualcuno che di colpo invade la tua sfera personale in cui solitamente non è consentito entrare; ti arriva come una mancanza di libertà e gestirla all’interno di un’analisi continua, senza mai lasciarci andare completamente a quello che è stato il mainstream, ci ha permesso di essere qui, più o meno integri.
Veronica: Un po’ credo che ce lo siamo chiamati quando abbiamo deciso di chiamarci come rappresentanti di una lista e la lista è quella dei fuori dal coro. È un atteggiamento che era già provocatorio in qualche modo. Ad oggi quella parola risponde subito ad un qualcosa che va contro il sistema, in realtà l’origine è quella del chiamarsi fuori, del generare un’azione. Quando stai innescando qualcosa in qualcun altro. Noi non abbiamo mai voluto fare una musica piatta: esci da un nostro concerto e forse non avrai una risposta, ma sicuramente una domanda o un dubbio sì. Non è una ricerca della verità, ma quella di uno sguardo critico e alternativo che poi, è la musica che mi è sempre piaciuta, quella che mi metteva la pulce nell’orecchio. Questo tipo di provocazione significa uscire dagli spazi pre confezionati.
Nella copertina di Giorni Felici c’è anche un palloncino. Inevitabilmente da fan di Stephen King, ho pensato a IT. Il pagliaccio è una figura tremendamente attuale per me oggi, ci rappresenta un po’ tutti, ovviamente da punti di vista diversi, sia i buoni che i cattivi. Il pagliaccio per voi, nel bene e nel male, potrebbe essere una figura rappresentativa dei tempi correnti?
Veronica: Sì, ci sono un sacco di pagliacci!
Dario: Il problema sta tutto nella consapevolezza della maschera. E della differenza tra un clown e un pagliaccio.
Veronica: la maschera è un elemento difficilissimo da saper portare. Il clown ha quella consapevolezza della teatralità, nella sua reale tristezza che prova a reggere un sorriso. Il sorriso che provi a reggere, molto probabilmente, quando ti addossano il tuo ruolo nella società e in fin dei conti ti ritrovi triste, perché non ti appartiene, perché te l’ha dato qualcun altro. Se ci pensi, dove guardi guardi, sono tutti col sorriso stampato.
Dario: il paradosso è che anche la sofferenza oggi viene raccontata nella sua forma condivisiva, quando in realtà ci sono delle cose che andrebbero assolutamente tenute intime. Stiamo perdendo l’intimità, la riservatezza e tutti quei momenti che non necessitano né di una validazione da parte dell’altro, né di un’esposizione, né di un applauso. Magari fossimo clown. Pensa alla ritualità, al silenzio del camerino in cui il clown si strucca, si toglie il cerone, si toglie il naso rosso. Magari avessimo quella capacità, quella dualità. Non c’è quella capacità che il clown rappresenta, perché sa di avere una maschera. Va bene il palcoscenico, però a un certo punto bisogna togliersi la maschera, guardarsi in faccia e riconoscere le proprie brutture, i propri fantasmi in maniera privata. La verità è che più di tutto mi spaventa la disumanità del mondo e il suo reality show continuo.