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Music Director Aprile 2025: Baustelle

I Baustelle sono i Music Director di Aprile 

Abbiamo intervistato Francesco Bianconi dei Baustelle in occasione dell’uscita del nuovo album della band El Galactico. Baustelle sono i Music Director di Aprile e hanno curato una playlist in esclusiva per i lettori di Harper’s Bazaar.

Tra atmosfere psichedeliche e scintillanti, Francesco Bianconi ci racconta la costruzione del nuovo album dei Baustelle, la celebrazione per i 25 anni di carriera, la preparazione del primo Festival interamente curato dalla band e le due date nei Palazzetti. I Baustelle sono i Music Director di Aprile 2025 e la loro playlist per i nostri lettori è il tappeto musicale di influenze dietro il nuovo progetto El Galactico.

Harper's Bazaar. Da dove arriva il nome dell’album El Galactico?

Francesco Bianconi. Guidavo di ritorno da una cena in fondo a Via Padova a Milano, era tutto buio intorno a me e vedo questa sorta di faro nella notte con scritto El Galactico, con dei ragazzi fuori e si accesa una lampadina. Era un food truck che vendeva Tacos, che non conoscevo e mi ha subito fatto pensare a un posto in Messico, o in California e ho pensato che fosse un buon titolo. Da lì sono passato a una visione, ancora prima di scrivere le canzoni. Avevo in testa il film del disco, prima del disco vero, fatto di un posto immaginario a Los Angeles, in un determinato periodo storico tra il 1965 e il 1966/67, in cui sono usciti dei dischi iconici e caratterizzanti, il primo disco dei Birds, il primo dei Doors, Pet Sounds dei Beach Boys, i Buffalo Springfield, The Mamas and Papas, tutti con dei suoni scintillanti, in accordo con il sole e con la vibrazione Californiana. Quel suono mescolava varie cose, l’entusiasmo degli anni sessanta, l’essere in una band, l’essere in California. Ho pensato che sarebbe stato bello riuscire a trasferire questo sentimento e questo suono dentro il nostro disco.

Questo è il film, sul lato pratico invece?

Sulla spinta di questo immaginario di El Galactico, abbiamo iniziato a scrivere le canzoni pensando a questa linea guida. Ci ha aiutato avere delle linee guida, ci ha semplificato il lavoro. L’album è effettivamente il trasferimento di quello spirito e di quel suono.

El Galactico è un nome che riecheggia dimensioni ultra terrene, sembra puntare al futuro, a una nuova specie, nuovi luoghi, oltre il terreno. Si accosta a una copertina con un immagine terrena, desertica, ma a suo modo lunare. La grafica poi riporta ai lettering scarni dei primi esperimenti di computer grafica. Che lettura avevate in mente per quella copertina?

Mi piace molto partire dalle copertine, anche in maniera istintiva. Vengo da un’epoca in cui si compravano i vinili e la copertina ti faceva immaginare dei mondi, oltre che il contenuto sonoro delle canzoni. L’idea della nostra copertina era anche un po’ quella di andare in una galassia alternativa, acida, psichedelica, è solo una delle milioni di interpretazioni possibili.

El Galactico sarà anche un Festival, ci racconti qualcosa?

Sarà un piccolo festival a Firenze che prevederà due nostri concerti, con una scaletta completamente diversa tra le due serate e con degli ospiti segreti a cui faremo da band spalla, facendo delle cover dei loro pezzi. Prima di noi ci saranno altri artisti che abbiamo selezionato seguendo il criterio dell’essere emergenti, giovani e che avessero in comune con noi un certo spirito in cui ritroviamo ciò che animava i Baustelle degli inizi. Abbiamo formato questo cast, arricchito anche da interventi parlati con la redazione de Il Post, c’è poi Giulia Cavaliere che mette dischi, insomma, un modo per non celebrare nulla, se non la nostra rivendicazione di essere parte di una musica non uguale a tutto il resto. Una musica che ha ancora un senso suonata dal vivo, un tipo di canzone che non ha paura di parlare di determinati temi e di farlo in un certo modo, insomma, credere ancora nella biodiversità.

Probabilmente anche il credere ancora nel vivere un Festival?

Assolutamente. Si da per scontato, ma ormai eventi che abbiano un senso di collettività sono rari. Sì, ci sono i concerti, ma è sempre un qualcosa di gigante, in cui si va per sentirsi confermati, dove vedi un concerto che è uguale al disco e vuoi che sia così anche da spettatore, perché altrimenti non lo riconosceresti. Organizzare un qualcosa di alternativo al modo di fruire la musica live è una bella sfida, una bella soddisfazione.

Come vivete invece la celebrazione dei 25 anni di carriera dei Baustelle?

Preferisco pensarlo come il compleanno dei 25 anni e non come delle nozze d’argento. Il bilancio è inevitabile, soprattutto quando te lo fanno notare. Il bilancio è in attivo, sono contento che abbiamo fatto quasi tutto quello che c’era da fare e continuiamo a porci sempre nuovi obbiettivi e nuove sfide. Il vero compleanno saranno le due date che faremo nei Palazzetti a fine 2025. Quelle saranno una festa conclusiva.

E’ un disco politico, sociale e cinico, come d’altronde sono sempre stati i dischi dei Baustelle. Al tempo stesso trovo un differente modo di fare denuncia, tutto sembra parlare di una modalità di visione del mondo lucida, critica, ma in qualche modo rilassata. Forse in questo “L’arte di lasciare andare” e la sua coda sonora “Per sempre” ne sono la traduzione. Sembra il racconto di una chiave di svolta.

Viviamo nell’epoca in cui facciamo tutto velocemente per mascherare e non lasciare andare una cosa che è alla base di tutto: accettare la morte. La canzone è su tutti questi stratagemmi d sul demone interiore che ci spinge a sentirci vivi, quando in realtà sei vivo solo quando accetti la morte, non quando cerchi di dimenticarla. Viviamo nell’epoca della cancellazione della morte, siamo travolti dalla chirurgia, dai filtri, dai social, dall’intelligenza artificiale, addirittura dal post umano. Tutto questo è figlio del pensiero degli umani che vogliono vivere per sempre, non di chi ha accettato la morte.

Ho trovato “La Nebbia” un’analgesico terribilmente semplice, commovente e brutale. Se mi guardo attorno, ascoltando il caos totale che c’è, sento odore di nichilismo nelle nuove generazioni, la cosa spaventa e crea speranza al tempo stesso. La nebbia potrebbe essere una coccola per questo nichilismo o la sua colonna sonora?

Ha delle caratteristiche di coccola e conforto, è una canzone d’amore che prende la nebbia come simbolo di quello che ci difende dall’orrore della realtà. Spero che abbia anche una funzione di conforto, se qualcuno lo cerca, oltre che, ovviamente, essere un grande inno a Pavia (ride N.d.E.).

Com’è nata l’idea del pezzo su Moana Pozzi?

Alberto Bazzoli, che suona il piano e l’organo nella band attuale dei Baustelle, mi ha portato una copia di questo libro rarissimo che si chiama “Filosofia di Moana” uscito nell’apice del successo di Moana. E’ una sorta di piccolo dizionario con foto in bianco e nero, dove ci sono delle parole chiave che compongono la sua filosofia. È famoso perché in alcune voci ci sono i voti che lei ha dato a certi amanti. Da questo oggetto è nata casualmente l’idea di scrivere una canzone che parla di Moana Pozzi. Personalmente è un personaggio che mi ha sempre ossessionato, sia volgarmente da ragazzino come una delle mie porno star preferite, ma anche perché c’era questa sorta di dicotomia tra lei e Cicciolina. Io ero affascinato da Moana, perché lei era quella che non rideva, era una sorta di enigmatica Monnalisa. In lei vedevo una dolcezza, una sorta di vita reale nascosta che veniva soffocata dalla sua performance. Nella nostra canzone, che non ha pretese di essere un pezzo biografico, la immaginiamo sul letto di ospedale in fin di vita. Su quel letto c’è Moana contro il mondo che la giudica, mentre lei, nel mondo della bellezza come pure commercio, risulta assolutamente più sincera di tante altre persone.

C’è un rinato interesse da parte del pubblico al nuovo cantautorato. Penso al successo quasi necessario di Lucio Corsi, ma anche a tante penne della nuova scena indie e rap italiana. La musica come tante forme d’arte, è al tempo stesso fuga e specchio dei tempi. Mi piacerebbe sapere, da chi è stato pioniere del cantautorato di fuga e specchio, cosa spinge le persone ad apprezzare nuovamente il cantuatorato oggi?

Sono felice di tutto ciò che porta il piccolissimo mondo della musica italiana verso una dimensione di autenticità, ma ancora di più quando lo spinge verso la diversificazione. Noi soffriamo del fatto che il mercato sia piccolo e che quindi ti costringa a andare nella direzione di ciò che funziona, saturando l’offerta con l’omologazione. Quando abbiamo iniziato come Baustelle, la discografia era in crisi. Ora, con le piattaforme e tutta la grande macchina che c’è intorno all’industria, sembra che funzioni nuovamente: per cui se una cosa va, viene subito coltivata intensivamente. Bene, se arriva qualcosa che è un’anomalia rispetto alla corrente, il mio augurio è che non vinca di nuovo la corrente, che la diversità non si faccia incanalare nel fiume. Per certi versi ci sono segnali di una nuova forma di canzone italiana già da un po’, con preoccupazione, però, vedo che è come se si fosse creato un macro genere in cui non c’è più distinzione tra cantautorato, pop e così via. Tutti giochiamo nello stesso campo dell’aver successo a tutti i costi, tutti dobbiamo riempire i palazzetti. Invece no, dovrebbe esserci chi fa musica jazz, chi fa il cantautore, chi fa la boyband, chi fa la trap, chi fa la musica classica e, soprattutto, smettiamola con l’idea che si ha successo solo se fai il sold out al Forum. Questo è culturalmente nocivo, per cui spero che vinca la diversità.

E anche la resistenza dal lato degli artisti forse?

Sì, c’è una co-responsabilità. A volte gli artisti sono costretti, perché non hanno altra scelta. Le case discografiche, il management, gli editori e così via, enfatizzano questo aspetto, per cui la diversità non c’è più. Nel disco c’è una canzone che si chiama “L’imitazione dell’amore” che parla di un periodo in cui la musica è smussata, dove si parla quasi sempre e solo di un tema in un solo modo e non c’è più la capacità - che spesso la canzone d’autore aveva - che ti rivoltava le viscere e non ti rassicurava. C’era sempre un elemento di novità, nelle sonorità e nelle parole: sentivi una canzone di Fossati e ti apriva un mondo nuovo, scoprivi un punto di vista diverso. Trovo paradossalmente incredibile come tutto ormai debba essere aderente a uno schema, essere uguale e rassicurante, quando bisognerebbe fare musica per essere diversi e non uguali.

Charlie per me fa ancora surf, ma forse è passato da un’adrenalinica short board all’equilibrio in freestyle di una longboard.

Trovo ancora attuale Charlie fa surf. Esiste ancora Charlie ed è ancora più perso di prima. Aderisce, ancora di più, a modelli di finta ribellione. Spero che se nascerà un Charlie nelle generazioni future sia meno perso nel mondo, più ribelle sul serio e sì, in questo equilibrio in freestyle.