SIMONA DELL'UNTO
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Nss Magazine

Collaborazione attiva dal 2009 al 2013 

BACK WHERE WE STARTED FROM: RAY PETRI AND THE BUFFALO CREW

Parlando di esordi si parla di fermento, di iperattività, paura e sgomento. Si parla di vera creatività, di un qualcosa che, se sviluppato al meglio e con un'idea vincente, andrà a influenzare ciò che accadrà negli anni a venire. Spesso sento ragazzi giovanissimi dire che sognano di diventare stylist, spesso questa professione non è compresa e troppe volte improvvisata. Non si arriva a fare il salto di qualità per cui uno stylist è colui che, insieme ad un team, traduce in immagini una sensazione, un'atmosfera, uno stile, un'idea. I lavori migliori di questi personaggi, a mio avviso, non si giudicano in base ai marchi utilizzati, al nome della modella o del modello o del fotografo. Non esiste un buon gusto universale, né tanto meno un'oggettività. Il gusto è soggettivo e le persone che svolgono questo lavoro attraverso la cultura e la continua reinterpretazione di influenze passate, presenti e future, sono quelli che riescono al meglio. Un bravo stylist è colui che riesce a cogliere dei dettagli dalla vita quotidiana, da ciò che lo circonda, da un libro, da un film, da una mostra come un input, per poi costruire attorno una storia fatta di immagini, abiti e luci. Tutto ha sempre un inizio, tutto comincia da una necessità, un guizzo, una volontà. Nessuno ha mai scritto la storia dello styling e spesso i ragazzi non conoscono il punto di inizio di una carriera tanto sognata. Gli stylist non sono sempre esistiti, sono stati una conseguenza del successo delle riviste di moda e piano piano hanno preso piede e importanza nel campo dell'editoria e non solo. In pochi, specialmente in Italia, sanno dove tutto iniziò. L'inizio va sotto il nome di Ray Petri e della sua Buffalo Crew. 

Londra, 1984. Il signor Petri negli anni precedenti si occupava della vendita di vecchi gioielli e monili a Camden Road. C'era stato il fenomeno del punk, della customizzazione libera e anarchica degli abiti, la strada aveva preso piede e importanza. Ray Petri aveva vissuto quel periodo, ne aveva assorbito il fermento e soprattutto, aveva osservato ciò che accadde. A poco a poco si fece travolgere dalla passione per la fotografia, la volontà di formare un collettivo di giovani creativi, una sorta di gang, formata da persone diverse. Dei talenti riuniti, come diceva lui, sotto lo stesso ombrello e lo stesso nome: Buffalo. 

Buffalo diventa una vera filosofia di vita, con una divisa: Dr Martens, calzini bianchi, Levi's 501 scuri, bomber MA-1 dell'areonautica e un pork pie hat. Il nome Buffalo deriva dai buttafuori de "Les Bains Douches" a Parigi, dei ragazzi decisamente prestanti provenienti da Guadalupe che indossavano il famoso giubbotto MA-1 con la scritta "Buffalo" sulla spalle. Molte erano le contaminazioni con il mondo della musica, fu inevitabile l'associazione a "Buffalo Soldier" di Bob Marley, ma il vero inno a tale stile fu la hit del 1988 di Neneh Cherry, "Buffalo Stance". Ray Petri creò un suo mondo, un suo modo di vedere le cose. Capì che c'era del fermento nell'aria, Londra all'epoca ne aveva viste tante, dal punk al new wave e poi quella strada inglese che continuava a essere contaminata da tutte le influenze possibili. Ray Petri era affascinato dai cattivi ragazzi, dall'immaginario dei nativi americani, dal tribale. Amava l'idea della sartoria classica italiana filtrata da un gusto caraibico. Unì gli uomini con le donne, diede vita per la prima volta al concetto di metrosexual, uomini virili in gonna, fotografati con abiti che mischiavano i generi, ma che non intaccavano minimamente la mascolinità del soggetto. Pensava che il modello giusto fosse colui che poteva interpretare al meglio il look e così il più delle volte erano ragazzi della strada inglese, alternati a una giovanissima Naomi Campbell o a personaggi del mondo musicale quali, la già citata Neneh Cherry, i Massive Attack o Nick Kamen. La sua crew era formata da nomi che poi diventarono grandissimi, quali Judy BlameJamie Morgan, Marc Lebon, Barry Kamen e tanti altri. Ray Petri fu "l'inventore" della figura dello stylist che prima non esisteva, negli anni in cui si andava a delineare l'idea che abbiamo oggi dell'editoriale, dei giornali specializzati nel dare una visione specifica della moda. Era l'epoca di "The Face""I-D""Blitz" e  "Arena". Per la prima volta le aziende di moda si rivolgono a degli stylist per avere delle consulenze, Ray Petri lavora ad esempio con Stone Island, per citarne una. Lo stile Buffalo era la fusione di mille influenze, la nobilitazione dello sportswear e una vera e propria istituzione della moda di strada. Da quel momento era cambiato qualcosa. 

Come tutte le  storie appassionanti che si rispettino il lieto fine fu spezzato dalla prematura scomparsa del padre della Buffalo Crew, stroncato dal HIV sul nascere di una rivoluzione purtroppo non studiata e conosciuta abbastanza.

BUFFALO! "THE HARDER THEY COME, THE BETTER." (Ray Petri, "The Face" Marzo 1985)


Back Where We Started From Goes Punk. Issue #1 Vivienne Westwood

Amando la moda, odiando gli odierni copia incolla dei troppi aspiranti senza arte né parte, ecco una lezione di vita che ci viene dalle nostre spalle, troppo spesso dimenticate e dissacrate.
Thank God They Were Punk!

Siamo nel 1971, al 430 di King's Road, Vivienne Westwood fonda con Malcom McLaren, il negozio simbolo del punk inglese: "Let it Rock", dando così il via ad un meraviglioso “C’era una volta”. 
Il Punk era una reazione forte contro le vecchie generazioni, considerate oppressive ed antiquate e la Westwood stessa, contribuì alla nascita di un'estetica che porta uno stile subculturale a diventare un fenomeno estetico globale. 
Tuttavia, sarebbe semplicistico ridurre la responsabilità del fenomeno solo alla Westwood e al suo socio di allora, Malcolm McClaren, benché molto del loro lavoro si concentrasse proprio sull'energia e le tendenze iconoclastiche del movimento. Gli albori arrivano dalla New York degli anni 70, dove gruppi rock quali “New York Dolls” ed il performer Richard Hell, stavano rompendo tutte le barriere borghesi nel malfamato e storico club del proto-punk, “CBGB”. Sarà proprio a New York che verrà coniato e utilizzato per la prima volta il termine PUNK e dove Malcolm McLaren ha colto ed importato in patria anglosassone la nuova onda.
Vivienne Westwood, attraverso il sodalizio con McLaren, ha reso manifesta la loro univoca visione del punk grazie alle loro creazioni. Il terribile duo irrompe sulla scena londinese, presentando uno stile liberamente ispirato al rock 'n' roll degli anni '50 e alla subcultura dei teddy boys.  Nel 1972, decidono poi di cambiare nome al negozio in “Too Fast to Live, Too Young to Die” e ne stravolgono completamente il genere per dare risalto allo stile rocker-biker dell'attore Marlon Brando.  Nel 1974 arriva poi una nuova rivoluzione per riflettere le nuove tattiche di McLaren, al tempo sulla buona via per divenire il celebre manager dei Sex Pistols
E’ l’epoca di “Sex”, e la vendita si ispira al sado-masochismo: latex, lacci, spille da balia, lamette, catene di bicicletta e collari a punte metalliche, a cui viene accostato il classicismo del tartan inglese. Il risultato è disarmante.
Due anni dopo i Sex Pistols si manifestano figli del duo McLaren Westwood e, nel loro primo concerto del 1976, indossano abiti provenienti dal negozio al 430 di Kings Road, che nel frattempo ha cambiato nuovamente nome in “Seditonaries”. I vestiti prodotti sono la manifestazione ed il culmine del punto di vista della Westwood, costellati di slogan,contaminazioni punk e sadomaso, un inno alla decostruzione come cultura del rifiuto. Un po' come il movimento Dada, che aveva provato a distruggere l'istituzione dell'arte, così i punk hanno sempre spinto verso la distruzione dell'istituzione stessa del concetto di fashion. Lo sguardo del punk è associato a vestiti che sono stati distrutti, o che sono stati rimessi insieme: capovolti, non finiti, o deteriorati.

Il famigerato negozio era il centro della scena punk. La moda della Westwood si faceva simbolo e mezzo di sovversione, sfornando veri e propri oggetti di "culto", come le strettissime giacche di pelle, i pantaloni con cerniere e borchie o gli aderentissimi modelli a sigaretta in lurex per gli uomini, accompagnati da abiti in gomma.
Una miscela di suggestioni di vario tipo, dal sadomaso, alle decorazioni naziste, fino ai vestiti che ricordano lo stile delle infermiere. Ogni abito è come un gesto politico: ha la funzione di scardinare i tabù e i valori delle vecchie generazioni. 
L'atteggiamento del D.I.Y (do-it-yourself) del punk era un prodotto unico di un periodo storico e socioculturale talmente particolare che sarebbe incomprensibile se sradicato dal suo contesto di origine, frutto di una realtà che vorrebbe rifiutare. E’ come se Vivienne Westwood e Malcolm McLaren avessero portato in superficie un movimento ed un fermento che scalpitava al di sotto della società e che non riusciva ad esplodere. Gli diedero dignità, facendo rientrare la sfera del punk nel mondo dell’Inghilterra degli anni settanta prima, e nel tempio della moda poi. 
Un piccolo universo venuto al mondo per "salvare" la regina.

God Save The Queen


Back Where We Started From Goes Punk. Issue #2 Boy London

Altro giro, altra corsa, parlando del punk, parliamo anche di fenomeni incontrollati, di manie che inspiegabilmente esplodono e svaniscono, arrivando alla malattia e alla frenesia del dio denaro e della fama.


La storia di Boy London, comincia nel 1972 con l’apertura di Acme Attractions , un negozio di abbigliamento destinato a divenire una sorta di factory. Aperto da Steph Raynor e John Krevine, in meno di due settimane dall’apertura si trasforma nel punto d’incontro del panorama musicale londinese, a cominciare dal leggendario Don Letts, che curava le relazioni con il pubblico all’interno del negozio, facendolo diventare un vero e proprio club. Tutte le personalità di spicco dell’epoca sono passate di lì: The Sex PistolsThe ClashPatty SmithDeborah Harry e Bob Marley.

Steph Raynor così ricorda quel periodo:
“We had an office with a (one)-way mirror, and we´d sit in there watching and pissing ourselves because we were so excited at how busy it was... I'd get home some nights and I´d have thousand of pounds to count out all over the carpet.”
 

Visto il successo riscosso dal movimento Punk ed il fortissimo riscontro avuto dal pubblico, i due soci Raynor e Krevine, decidono di chiudere Acme Attractions e di aprire un nuovo progetto, Boy, rompendo così il sodalizio con Don Letts, decisamente più concentrato ad affermarsi come manager musicale.
Boy diventa un nuovo punto di riferimento, ed esplode ai massimi livelli negli anni 80. La linea di abbigliamento omonima, diventa il must have del periodo, portata in auge da personaggi come Boy GeorgePet Shop BoysJhonny Slut e molti altri. Le grafiche Boy sono le più imitate: dalla classica bold nera su sfondo bianco, alla gold edition, fino ad arrivare alla serie con il famoso smiley acid, simbolo della house music. Il fenomeno Boy  London contamina tutti, facendo della moda una mania. Cycling shorts e bomber mozzafiato, crop top e back pack in purissimo stile anni 80, tutti super logati, riproducendo in varie grandezze la scritta Boy e l’ormai riconoscibile rimando all'aquila del Secondo Reich. Per altri dieci anni Steph Raynor continua a cavalcare l’onda, segnando lo stile degli anni 90 in maniera inconfondibile. 
La storia di Boy, è una storia lasciata senza fine, ma nel mistero della leggenda. Nessuno sa precisamente perché il marchio non sia andato avanti con la produzione o i motivi chiari della sua cessione, né tanto meno se mai riprenderà il suo percorso. Ciò che sappiamo è che Stephen Raynor vive un nuovo progetto con lo shop Sick al 105 di Redchurch street, East London, un emporio dell’usato che offre di tutto, dalle biciclette di seconda mano, ad una selezione di capi vintage o ristampati della sua amata Boy, fino a posti letto per clienti vagabondi sul suo sofà on rent.

 Una sorta di stregone delle tendenze, anarchico ed edonista, sempre alla ricerca di nuove missioni da portare a termine, assorto nel suo mondo, in passato come nel presente.


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NIGHTLIFE CULTURE* THE BLITZ KIDS

BLITZ

Oggi li chiamano partygoers, ieri li chiamavano Rivoluzionari.

Quando mi hanno parlato per la prima volta dei Blitz Kids subito la fantasia e l’immaginazione hanno preso il sopravvento pensando a quel gruppo di giovani amici che, rivoluzionando inconsciamente diversi canoni estetici, hanno portato per la prima volta alta la bandiera della libertà e al tempo stesso il codice del travestimento. Luogo del loro “culto” e del loro discusso ma idolatrato esibizionismo è stato un fantasmagorico locale di Londra, il Blitz Club, per l’appunto, dove Steve Strange, un’artista camaleontico, seguiva la religione del Duca Bianco e imponeva il suo personalissimo dictat di selezione al suo pubblico non ordinario. Una volta entrati al Blitz Club, culla dell’eccesso, le libertà regnavano supreme e le inibizioni erano morte e sepolte a favore di nuove calde e controverse esperienze: il sapore della prima volta si mescolava agli odori e ai profumi del locale. La storia narra che celebrità di quegli anni, Boy George, Rusty Egan, Princess Julia, Billy Idol e David Bowie su tutti, erano parte integrante del movimento stesso, movimento che in poco tempo da fenomeno stilistico divenne manifesto di una generazione stanca della cultura punk più aggressiva e alla ricerca di un nuovo e più sofisticato culto estetico. Non era però una semplice questione di doversi far notare, né tanto meno di pura e semplice estrosità, piuttosto era mettere in scena un taboo, un modus vivendi temuto e rinnegato dalla società dell’epoca; una messa in scena che proprio Boy George portò sul palco nel suo omonimo musical Taboo, in cui raccontava la storia dei Blitz Kids, da lui vissuta in prima persona. Furono la voglia di cambiamento e il culto di una nuova bellezza, a tratti androgena ed eterea, insieme a un luogo che divenne simbolo di un’intera epoca, a trasformare i Blitz Kids da semplici seguaci di un trend stilistico a capofila di un fenomeno culturale e sociale, dominato da colori accesi e da uno stile che univa etnico, barocco e piratesco truccato a festa e che trasformava la loro notte in un continuo viaggio di ispirazioni ed eccessi. Ai Blitz Kids tutto era concesso e l’unica regola in vigore era: Only the strange and beautiful!